nel secondo anno di newsletterotti l’intro cambia ogni volta o magari non c’è proprio. questa è una di quelle volte in cui non c’è proprio: oggi sono insofferente e non vedo l’ora di finire di scrivere, ma forse questa non-introduzione è un’ottima intro.
BONUS D’APERTURA - FIGLI DELLE STELLE
(quella che segue non è astrologia; quella che segue sono io che parlo di persone che conosco usando il loro segno zodiacale - ossia il segno di Sole - come mero pretesto. la lettura della carta astrale è un affare ben più complesso che, se v’incuriosisce, potete sbrigare con persone ben più preparate di me sulla materia. tentare di raccontare qualcuno affidandosi unicamente al suo segno di Sole è del tutto fallace, oltre che inutile: come tutto qua dentro, anche questa sezione lascia il tempo che trova.)
“la mia malinconia è tutta colpa tua” cantavano i Thegiornalisti: la mia insofferenza di cui sopra è tutta colpa della stagione dell’Aquario. il trimestre astrologico Aquario-Pesci-Ariete, ossia quello che si è aperto pochi giorni fa e che si chiuderà a metà aprile, mi devasta e spreme ogni anno senza un preciso perché: forse è soltanto una profezia che si auto-avvera: mi dico che lo odio e faccio di tutto affinché io abbia motivi per odiarlo. a questa insofferenza si aggiunga che non conosco nessun Aquario così bene da potergli dedicare qualche riga qui (se ne rallegreranno loro, e hanno ragione, ma, tolto il dispiacere per la newsletter, me ne rallegro anch’io, di non conoscerne nessuno abbastanza bene): ne ho beccati pochi nella mia vita e con i pochi che ho beccato non è stato tutto rose e fiori, diciamo.
per sopperire alla mancanza di Aquario che conosco di prima mano, credo che la cosa migliore sia parlare di Francesco Acerbi, nato il 10 febbraio 1988, difensore della beneamata Internazionale FC (il Klaassen numero 14 è pure dell’Inter, ma lui è Pesci). la ritengo la cosa migliore perché Acerbi è per me l’epitome dell’essere Aquario, o quantomeno del rapporto che io ho con questo segno: mi affascina, ne sono fatalmente attratta, e proprio per questo so che devo guardarlo da lontano, con anche un po’ di terrore, soprattutto quando rilascia le interviste a fine partita e mi sembra sempre che da un momento all’altro, tra uno sguardo storto e un’espressione schifata, potrebbe mettere le mani addosso a chi gli sta facendo le solite due noiose e annoiate domande.
brevissime note biografiche: Acerbi è nato a Vizzolo Predabissi, piccolo paese dell’hinterland milanese che avevo già citato qui sempre a braccetto con il calciatore; nel 2013 gli era stato diagnosticato un tumore da cui, naturalmente, è guarito e che l’ha fatto molto avvicinare alla fede e a Dio. per questa ragione prima di ogni partita prega: ma non prega in maniera svelta, anche comune, come tanti altri giocatori che si fanno il segno della croce o si baciano un dito e lo puntano verso il cielo. no, lui prega come un Aquario, ossia come un santone folle e visionario. ha spiegato di avere una sua personale preghiera lunga due pagine che recita velocemente, quindi lo vedi farfugliare tra sé e sé con il suo volto sempre arcigno, con quel ciuffetto di peletti bianchi in mezzo alla barba castana, appena sopra la bocca. per pregare alza le braccia al cielo, mettendo in bella vista tutti i suoi tatuaggi: anche qui, non sono tatuaggi da calciatore (o almeno, non solo). Acerbi s’è tatuato tutti i protagonisti di “Madagascar”, il cartone animato, ma anche l’emoji del leone poco sopra gli occhi di un leone realistico, in un gioco sottile tra realtà e finzione grazie al quale chiaramente si sente moralmente e intellettualmente superiore ai suoi compagni passati, presenti e futuri, tutti dei tamarri con il re della savana tatuato a piena schiena. e poi: le mani guantate di Topolino messe a cuore, un cerotto manco fosse una Tumblr girl del 2014, un cuoricino con delle chiavi appese, un paio di occhiali da sole. è un mix di roba che fa molto Harry Styles e molto poco difensore di una squadra di Serie A.
ciò detto, Acerbi è fortissimo (lo dice anche Marco Pesatori in “Sotto il segno del pallone” che gli Aquario sono ottimi calciatori: nell’attuale Inter lo testimoniano pure Çalhanoğlu, Mkhitaryan, De Vrij e Barella, ma anche Agoumé è nato sotto questo segno, e il tutto in attesa di veder giocare il neo-acquisto Buchanan, un altro Aquario). quando Acerbi arrivò all’Inter dalla Lazio molti tifosi neroazzurri si lamentarono: lo detestavano perché secondo loro in una partita della stagione precedente, un Lazio-Milan vinto dai secondi, Acerbi avrebbe riso di goduria al gol vittoria del Milan. naturalmente le cose non stavano così, la risata era di stizza e nervosismo, ma in ogni caso Acerbi ha, poi, dimostrato sul campo di essere un signor giocatore, facendo per fortuna tacere i più idioti dei tifosi interisti (mi vanto, da par mia, di averlo sempre difeso: io ci provo a voler bene agli Aquario, lo giuro). peraltro, gli ultras interisti e quelli laziali, uniti non solo dall’amore per il calcio, ma anche da quello per il fascio littorio, sono gemellati e caso vuole che pure i laziali non sopportassero granché Acerbi in quel periodo. per calmare un po’ gli animi e chiarire la sua posizione nei confronti della tifoseria, prima di lasciare Roma per Milano, scrisse una lettera aperta in cui diceva di avvertire “una sensazione di solitudine che umanamente mi ferisce”: gli Aquario, si sentono sempre soli, ma se provi a tirarli fuori da quella solitudine s’incazzano con te, vabbè.
UNO - ROBA CHE LEGGO
da grande amante delle raccolte e dei racconti brevi quale sono, “Storiette e Storiette tascabili” di Luigi Malerba (ancora un Quodlibet, ma che ci posso fare) ce l’ho sempre sul comodino, così tanto per, per sfogliarlo ogni tanto; è un po’ come quando da piccola volevo farmi rileggere da mio nonno una o due delle favole di Fedro ogni giorno. una delle storie di Malerba si intitola “Il passato remoto” e dice:
“Cesarino aveva una gran paura del passato remoto. Quando sentiva qualcuno che diceva «andai» oppure «caddi» o anche semplicemente «dissi», si tappava le orecchie e chiudeva gli occhi. Il passato remoto secondo lui poteva andare bene sì e no quando si parlava di Nabucodonosor, di Alessandro Magno o di Federico Barbarossa, ma se lo sentiva in bocca ai suoi compagni li vedeva già morti e imbalsamati. Per piacere non dire «arrivai», li pregava a metà del discorso, ma nessuno gli dava retta. Il passato remoto creava fra lui e i suoi amici, fra lui e il mondo, delle lontananze che lo spaventavano come il buio della notte o la pioggia nella giungla. È vero che i genitori di Cesarino non lo lasciavano andare in giro di notte da solo e non si era mai avventurato nella giungla sotto la pioggia, ma la sua immaginazione gli richiamava alla mente queste paurose analogie. Se almeno i suoi amici avessero accettato di mettere davanti al passato remoto un «forse», già sarebbe stato più contento. Ma non era mai riuscito a convincerli. Eppure era sicuro che si può vivere benissimo anche senza il passato remoto.
A scuola aveva tentato in tutti i modi di rifiutarlo, ogni volta che ne trovava uno nei libri di testo lo sostituiva con un passato prossimo o un imperfetto: al ginnasio aveva corretto Leopardi e Manzoni e al liceo Dante e Petrarca facendo ammattire i professori.
Quando finalmente Cesarino, finita l’università, aveva incominciato a lavorare come ingegnere idraulico, il passato remoto era ormai scomparso definitivamente dalla sua vita. Non lo usava mai né a voce né per scritto dimostrando che aveva ragione lui, che si può vivere benissimo senza il passato remoto, che si può ugualmente avere successo nella professione, che senza passato remoto si possono avere anche dei figli e vivere felici e contenti.”
(carissimi amori toscani, io vi penso sempre - a voi e al vostro linguaggio!)
DUE - ROBA CHE MANGIO
andando a Rimini ho appreso che esiste una sorta di setta della ristorazione cittadina, ma una setta buona: buona come tutto quello che mi sono mangiata in due giorni di permanenza sulla riviera. partendo dal sito dell’Osteria de Borg, se si va in fondo si legge “I nostri ristoranti a Rimini”: oltre all’Osteria ci sono altri cinque locali, tra i quali ho provato la Trattoria La Marianna, dove si mangia solo pesce. l’Osteria e la Trattoria sono a pochi passi l’una dall’altra, in borgo San Giuliano. il borgo è la Murano riminese, tutto casette colorate e piazzette e viuzze. benché la Rimini vecchia mi sia piaciuta tutta, esattamente come a Parma, a Pavia e a Firenze il quartiere in cui più vivrei è quello di là dal fiume, il Borgo appunto, collegato alla città dal ponte romano di Augusto e Tiberio.
il bello di andare in località di mare in inverno è che ci trovi solo la gente del posto: a La Marianna, oltre a me, c’erano tre tavoli occupati. in uno sedeva una signora anziana, in carrozzina, che parlava in dialetto con quello che poteva essere suo figlio: sono stata un po’ ad ascoltarla e non ho capito niente, ma che bello sentirla parlare. poi c’erano quattro tizi che potevano essere elettricisti o qualcosa di simile: erano in pausa pranzo, parlavano non in dialetto, bensì in italiano, ma con una forte cadenza romagnola e hanno ordinato tantissime cose che quando gliele portavano mi maledicevo per non averle ordinate pure io (che, comunque, ho mangiato tanto). all’altro dei tavoli presi, invece, c’era un signore da solo, con il computer aperto mentre mangiava: non sono solo i milanesi a far così, dunque. vicini di tavolo a parte, se capitate a Rimini, andate a La Marianna e ordinatevi tutti i primi di pesce.
se, però, siete più fan della cucina di terra che di quella di mare, potete virare verso l’Osteria, la cui offerta di antipasti mi ha messa in crisi come poche altre nell’ultimo periodo: ho optato, poi, felicemente, per il tagliere di salumi di Mora Romagnola, ma una parte di me è ugualmente mancata quando ho dovuto rinunciare ai rotolini di piada farcita con crudo, squacquerone e rucola, nonché alla pida de parsot. peraltro, l’Osteria è tra i locali Bib Gourmand, un’indicazione della Guida Michelin relativa a ristoranti dove si spende poco (rispetto agli altri segnalati dalla stessa) e si mangia, e beve, mica male. gli spazi dell’Osteria sono molto carini: un bel mix tra tavoli casalinghi, con le tovaglie a quadri, e ambiente pseudo-industriale, con forno della piada e taglio dei salumi a vista.
che quella della ristorazione riminese fosse una setta l’ho realizzato ritrovando in Osteria la stessa cameriera che mi aveva fatto accomodare in Trattoria: ci siamo guardate ridendo e mi ha portato il menù.
(forse alcuni di voi, i più attenti, con faccia sbigottita, staranno pensando: “ma come, eri a Rimini e non hai mangiato alla Sangiovesa?” e a voi che lo state pensando rispondo: tacete, certi dolori sono semplicemente incommentabili. ritornerò.)
TRE - ROBA CHE STUDIO
mi pare che parlare di mostri in conclusione alla newsletterotti aquariana abbia un suo perché, e, infatti, eccoci con il leviatano di San Marco, chiesa milanese fondata nel 1254 dal priore agostiniano Lanfranco Settala (fondata almeno secondo la tradizione, ma con ogni probabilità c’era già qualche edificio sacro precedente). San Marco, in zona Brera, è piena zeppa di cose da vedere: la cappella Foppa affrescata da Lomazzo; l’arca di Martino Aliprandi; il monumento funebre di Lanfranco Settala (non il fondatore della chiesa: un altro, suo omonimo); una Crocifissione, parzialmente visibile sotto gli affreschi seicenteschi dei Fiammenghini e a un’Assunzione della Vergine di XV secolo, solitamente attribuita ad Anovelo da Imbonate (ma scrivendo queste righe scopro che in anni recenti l’attribuzione è stata messa in dubbio, ritenendo che la scena sia della mano di un pittore anonimo attivo anche in altre chiese milanesi: San Lorenzo e Sant’Eustorgio); il più antico organo di Lombardia, suonato addirittura da Mozart oltre che da Verdi. in questo pregevole insieme di immagini e suoni si finisce, lecitamente, per dimenticarsi di altre tracce pittoriche, minori e peraltro ben nascoste e tenute al segreto, ossia gli affreschi di fine XIII/inizio XVI secolo originariamente collocati nella cappella sinistra del transetto, strappati e spostati nel 1969.
questi affreschi sono scalabili in due fasi cronologicamente poco distanti tra loro: alla prima appartengono due teorie di santi, con al centro una Madonna in trono con il Bambino, posti al di sotto di arcate sorrette da esili, fragilissime colonnine; alla seconda, invece, sono da ricondurre altri due santi, ossia la Maddalena e un santo cavaliere, e il già menzionato Leviatano. questo frammento pittorico mostra un’enorme creatura verdognola-marrone, a metà tra il mostro di Loch Ness e un diplodoco, mentre viene immobilizzata e plausibilmente uccisa da un uomo, il tutto in un’ambientazione lacustre o marittima, come sottolinea sulla sinistra lo specchio d’acqua, quasi di ghiaccio, abitato da pesci. del Leviatano si dice più volte nel libro dell’Apocalisse e nello stesso si legge di “un mare di cristallo” (Ap 15:2), elemento che ha fatto propendere per l’identificazione della strana creatura di San Marco con quella dell’Apocalisse: è un’immagine rara, per cui i confronti non sono proprio agevoli e questa proposta rimane la più credibile.
come dicevo, gli affreschi sono stati spostati in seguito allo strappo del 1969 e oggi stanno in quello che in tutti i cataloghi e gli articoli e i siti viene chiamato “Museo di San Marco”, perché, in effetti, lo è. tuttavia, è probabile che anche se siete stati più e più volte in chiesa non sappiate dell’esistenza del museo, dato che in loco non è minimamente segnalato e, se volete visitarlo, dovete superare delle fatiche organizzative e mentali che Ercole a confronto è un principiante. ad esempio, se mandate una mail alla parrocchia chiedendo informazioni su orari e modalità di accesso al museo vi viene tipicamente risposto che “in San Marco non esiste nessun museo”: sono stupida e ho letto male in tutti i libri negli ultimi cinque anni? ma, allora, dove li avete buttati gli affreschi strappati? non sono piccolini, dubito che un qualche prete negli anni ‘80 se li sia potuti portare via quando veniva ricollocato. dopo circa cinque mail, con le quali dimostrate non solo tenacia, ma anche una conoscenza previa di quel che volete vedere nel museo (che io ho ribattezzato di Schrödinger: esiste, ma anche no), perché glielo dovete dire, a chi vi risponde, che volete vedere proprio quegli affreschi lì, ecco: dopo circa cinque mail vi viene dato il contatto di qualcuno che vi accompagnerà nella visita del museo. si tratta di un piccolo ambiente ricavato dagli spazi del convento, adibito a museo per puro caso: davanti al Leviatano, ad esempio, sono impilate decine di sedie che rendono difficoltosa la visione della scena e impossibile l’avvicinamento alla stessa, vabbè. il giro prosegue, e si conclude, entrando nel buio, umido, disordinato e stretto retro dell’attuale cappella sinistra del transetto, ossia nello spazio dov’erano stati realizzati gli affreschi alla fine del XIII secolo o agli inizi del successivo. tra un armadio e un’altra pila di sedie si possono ancora vedere (più o meno: la luce scarseggia) tracce delle sinopie. consiglio il giro di mail e la visita al tugurio (che non è nemmeno l’unico nella chiesa) anche solo per avere qualcosa da raccontare al prossimo appuntamento (ché, comunque, quegli affreschi lì, sul piano della qualità tecnico-realizzativa, non sono nulla di eccezionale).