ciao amori della titti, ché se siete iscritti siete automaticamente miei amori, volenti o nolenti (poi del significato della parola “amore” possiamo pure parlarne). nella vita reale sono una persona disordinata e priva di metodo (non ho placements Vergine: c’era da aspettarselo), dunque mi sono auto-imposta di essere estremamente schematica, rigorosa e concisa almeno nella newsletterotti!
ogni 27 del mese troverete uno stralcio di qualcosa che ho letto, un commento su qualcosa che ho mangiato, un pensiero su qualcosa che c’entra con il medioevo. c’è anche un bonus d’apertura: il santo o la santa del giorno, così potrete fare gli auguri a qualcuno che si chiama così (anche se non siete credenti, solo perché l’agiografia è una bella roba)! eccovelo, il servizio pubblico.
in fondo (ben nascosto) trovate il pulsante “unsubscribe” se (lecitamente) non vorrete più saperne di me, prima o poi. ora, però, iniziamo!
BONUS D’APERTURA – IL SANTO DEL GIORNO
tra i vari santi che si celebrano oggi ho scelto il peggiore, nel senso che non si hanno molte notizie su di lui, dunque non so cosa scriverò nelle prossime righe. l’ho scelto solo perché è sant’Evaristo e volevo dire: mi chiamo Evaristo, scusate se insisto.
ad ogni modo: Evaristo (il santo, non Beccalossi, come se ci fosse una qualche differenza) fu papa a cavallo tra I e II secolo e le sue azioni ci sono note grazie al “Liber Pontificalis”, che in realtà non è un solo libro, ma una sequenza secolare di più testi che trasmettono, appunto, le vite e le opere dei vari papi. tramite il Liber, comunque, non si apprende granché, se non che Evaristo nacque a Betlemme e che, negli anni passati sul soglio pontificio (dal 97 al 105), ordinò sette diaconi, diciassette preti e quindici vescovi. oltre a questo, il nulla, se non un’antica tradizione che lo vorrebbe morto durante le persecuzioni portate avanti da Traiano: il suo corpo sarebbe, poi, stato sepolto insieme a quello di san Pietro, ma anche di questo non c’è alcuna conferma.
non ho altro da dire su Evaristo, il quale ci insegna che anche chi non ha molto fa offrire merita, comunque, di essere citato nella newsletterotti.
(il giorno dopo aver scritto questa sezione e la prossima ho incontrato una persona con cui ho ampiamente parlato di Beccalossi: le coincidenze, se ve lo steste chiedendo, non esistono. ma andiamo avanti.)
UNO – ROBA CHE LEGGO
come già scritto nel sottotitolo (se si chiama così), quella di oggi è la newsletterotti dell’11 titolare, per cui in questa e nelle altre due sezioni ci saranno tre elenchi da 11 punti ciascuno: una sorta di best of. sarà lunga, dunque iniziamo.
11 titolare della lettura, ossia non sarò mai in grado di formarmi un canone letterario ordinato e sistematico:
“Vite vere compresa la mia” di Beppe Viola, ripubblicato dalla mia adoratissima Quodlibet proprio nel 2023, e dato che Beccalossi l’ho citato prima, rimango in tema calcistico con il Beppe. il Beppe, quel personaggio che, dopo il derby della Madonnina del 27 marzo 1977, una partita di una noia mortale, finita 0-0 e da lui stesso definita “derbycidio”, mandò in onda sulla Rai un servizio mostrando azioni e gol del derby del 24 febbraio 1963, per non ammorbare o deludere ulteriormente i tifosi.
“Un amore” di Dino Buzzati: l’ho comprato per caso, non era un acquisto pianificato; l’ho comprato solo perché era la prima edizione con in sovraccoperta un quadro di Baj a prevalenza cromatica arancione; ho più volte pianto di disperazione leggendolo; l’ho amato.
“L’ombra del vulcano” di Marco Rossari, romanzo agile uscito quest’estate: non dico che sia il libro che vi cambia la vita, ma ci sono alcune pagine davvero ben scritte e che mi hanno fatta piangere in tram (ah, ma sai che novità, direte voi).
“Polveri sottili” di Gianluca Nativo, altro romanzo uscito un paio di mesi fa e che m’ha fatta piangere sia in tram che in treno (ecco, appunto).
“Lui! Visto da lei” di Natalia Aspesi, perché è Natalia Aspesi e non può esistere un mio 11 titolare senza questa signora.
“Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria” (o, come l’ho naturalmente rinominato parlandone con un amico, prima di iniziarlo, “Il libro dell’Inter”) di Rosetta Loy: ne avevo sentito parlare con entusiasmo in estate, l’ho comprato insieme al Buzzati di cui sopra e direi che è stata un’ottima doppietta, per rimanere in ambito calcistico.
“G. Martino Spanzotti - Gli affreschi di Ivrea” di Giovanni Testori sia perché sono da poco stata a una conferenza in cui è stato citato questo libro (mentre la conferenza era una presentazione un po’ sui generis di quest’altro), sia perché rientra in quel manipolo di cose che sogno ricorrentemente di aver pubblicato io per quanto le sento affini (scusami Testori, è un colpo bassissimo per te essermi così vicino, lo so, perdonami, dai, se puoi).
“Emigrazioni oniriche” di Giorgio Manganelli (tanto lo so che non aspettavate altro) che nell’ultimo periodo ho già consigliato privatamente ad alcune persone, per cui non posso far altro che ampliare il raggio e sbatterlo direttamente qui. io mi sono fortemente scontrata con questo libro (un po’ come con quello di Testori appena sopra: mi ci scontro e, poi, vorrei averli scritti io), perché mi ha fatto realizzare che la storia dell’arte come vorrei farla io non è storia dell’arte, bensì proiezione del sé sulle opere altrui (anche perché altro non sappiamo fare, noi narcisisti covert).
la raccolta di “Rime” di Veronica Franco, poetessa del Cinquecento, cortigiana di alto rango e tante altre cose che vorrei essere pure io.
il saggio di Cesare Zavattini in apertura a “Fiume Po”, un libro introvabile (che io, modestamente, sono riuscita a farmi regalare, assistita da chissà quale entità cosmica) firmato dallo stesso Zavattini insieme al fotografo William M. Zanca (che, per fortuna, non è il William Zanca che trovate come primo risultato su internet): è tutto uno sproloquio sull’essere nati vicino al Po, e le bellezze padane versus le bellezze mediterranee, e il rapporto di un padano con il suo fiume…
“Nostalgia” di Mircea Cărtărescu, letto ormai qualche mese fa con i miei compari del Bookclub Chill: l’unica informazione necessaria su questo libro è che c’è una pagina composta per circa 3/4 di soli “no no no no no no no no”.
DUE – ROBA CHE MANGIO
11 titolare della cucina, ossia vorrei che Spacedelicious mi prendesse tra le sue fila:
all’Osteria del Campanile di Torrazza Coste, in provincia di Pavia (la metto in cima alla lista, tanto nessuno di voi ha voglia di andare fino a lì, per cui non si pone il problema dello sdoganamento di un posto che ho amato e che non vorrei venisse invaso da gentaglia), servono il tagliere di affettati dell’Oltrepò con la schita, una frittellina insapore che sta bene con il dolce e con il salato. la schita è una di quelle robe che te le faceva la nonna quando tornavi da scuola e dovevi fare merenda: trovarla al ristorante (e che ristorante!) ti scalda un po’ il cuore: siate romantici, dai.
l’involtino fresco di Mo Sarpi andrebbe inserito nella lista dei beni protetti dall’UNESCO: la sciura (cinese) tuttofare (ossia l’unica che sta anche in cassa) quando mi vede rispuntare dopo mesi di assenza mi dice sempre che temeva mi fossi trasferita lontano da Milano. ma come potrei mai vivere senza il tuo involtino fresco, carissima?
alla trattoria San Galdino, benché non l’avessimo ordinato, ma dato che c’era da aspettare qualche minuto in più del solito perché la cucina era sovraccarica, ci è stato recapitato al tavolo, per scusarsi, un tagliere con lo gnocco fritto. da quel giorno, accetto scuse solo in questa forma.
a inizio ottobre a Milano c’è stato Naturale Festival, alla sua seconda edizione. tra le varie bottiglie che mi sono portata casa, coi soldi di papà ovviamente, ce n’è una di catarratto, ma macerato che come gradazione alcolica non raggiunge nemmeno gli 11°, quindi è a prova di bambino, ma che sia al naso che sul palato è un’esperienza da provare. fortissimi sentori di foglia di tè, in un vino. wow.
nelle loro canoniche peregrinazioni piemontesi d’autunno, i miei genitori sono di recente stati nelle Langhe e, tra le varie cose (ad esempio, due pezzi di Castelmagno), hanno portato a casa un po’ di robiole di Roccaverano di cui una stagionata sei mesi: perde completamente la parte molle, si secca e solidifica, il sapore tende all’ammoniaca, ottima da grattugiare su una semplicissima pasta al pomodoro come fosse ricotta salata oppure con qualche composta, o chutney, o miele che ne smorzi l’acidità.
lo stesso giorno in cui hanno comprato le robiole, i miei genitori, con relativa compagnia di amici, sono stati all’osteria La Torre di Cherasco dove io e mia mamma avevamo pranzato un anno fa circa: piatti buonissimi, conto più che onesto, posate Sambonet di Gio Ponti (poi, per digerire, potete anche fare due passi verso la chiesa di San Pietro, che forse starebbe meglio negli 11 titolari del Medioevo, ma vabbè).
sarà l’estrema vicinanza kilometrica all’azienda, ma sono grande sostenitrice dello zola dolce dell’Arioli: profondi solchi di disperazione, odio e dolore mi segnano il volto quando, aprendo il frigorifero, scopro che mio padre, per necessità (leggasi: all’Esselunga era finito l’Arioli), ha dovuto comprare lo zola di qualche altro caseificio (magari, solitamente, il Cameri).
dopo anni di frequentazione del Mykonos in Martesana, le ultime volte che sono stata al greco l’ho fatto andando al Rebetiko, zona Arco della Pace. consigliatissime tutte le creme d’antipasto e la mia amatissima spanakòpita. il proprietario, Georgios, è una specie di Toni Servillo tessalico: quando si avvicina al tavolo con quel suo modo di fare dolce, dolcissimo, ma un po’ misterioso, misterico (per rimanere nell’antica Grecia) mi si riempie il cuore. bonus: su una delle pareti, che sono tutte piene di scritte e disegni dei clienti, c’è scritto “Titti è stata qui” o qualcosa di simile, ma vi giuro che non è opera mia.
confesso i miei peccati: se sono a casa all’ora di pranzo, guardo “È sempre mezzogiorno!”, il programma di Antonella Clerici, anche e soprattutto perché sono innamorata - scusami Georgios, già ti tradisco - di Ivano Ricchebono. lo amo perché lo odiano tutti (e non sono così certa che sia mera finzione televisiva). è lo chef del ristorante stellato The Cook a Genova, sua città natale, dove esiste un menù degustazione chiamato “Bernardo Strozzi”, pittore genovese del Seicento, autore degli affreschi che ornano la sala del ristorante. ora: non dico che questo debba per forza essere un do ut des, per cui io ve ne parlo e qualcuno di voi mi offre una cena al The Cook, però, volendo, possiamo pensarci.
nella newsletterotti di giugno avevo segnalato tre gelaterie: benché fuori stagione, urge aggiornare la lista con una recente scoperta, la Tomaselli Icedream in zona Lambrate/Feltre. cono due gusti: lime con pepe rosa e fico, non dico altro.
appello: voglio una Mort Subite e non la trovo da nessuna parte!
TRE – ROBA CHE STUDIO
11 titolare del Medioevo, ossia cosa vedere a Milano & dintorni oltre alle mostre del vostro migliore amico scultore nel garage di vostra zia, senza rinfresco all’opening, peraltro:
la chiesa di San Sepolcro a Milano, fondata nel 1030 da un laico, Benedetto Rozone, maestro della zecca milanese che aveva sede proprio nei pressi della chiesa, allora dedicata alla Santissima Trinità. come successo per Evaristo Beccalossi, anche di questa chiesa ho parlato con un amico poco dopo averne scritto qui: mi diceva che è forse la sua preferita a Milano, dunque, fidatevi non solo di me, ma anche di lui. e, comunque, lì di fronte, ancora per un mesetto, ci trovate pure Tommaso Calabro.
sempre a Milano, al Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco, è esposta una lastra frammentaria raffigurante un’aquila poggiata su una colonnina e rivolta (benché il muso sia perduto) verso un nido in cui stanno tre aquilotti. il pezzo proviene dallo scavo Ottocentesco di Santa Maria d’Aurona e nella cornice reca delle lettere che sono state integrate a formare i nomi di due dei quattro evangelisti, Luca e Giovanni. c’è quest’ultimo, c’è l’aquila: tutto risolto. no, perché gli aquilotti non si capisce da dove sbuchino. ci ho scritto su un articolo e me ne pento, perché io odio quell’articolo. vabbè: errori di gioventù.
a Morimondo, a sud-ovest di Milano, verso Vigevano, sorge un’abbazia cistercense: il monastero fu fondato nel 1134 mentre la chiesa venne eretta a partire solo dal 1182. peraltro proprio quest’anno si è “conclusa” una storia che riguarda l’abbazia dove, nel 1974, fu trafugata una statuetta Trecentesca raffigurante una Madonna con il bambino. ormai rassegnati alla perdita dell’opera, si è deciso - tra fedeli, comune e frati: tutti insieme appassionatamente, in pratica - di commissionare un sostituto da collocare, come l’originale, al centro dell’acquasantiera. ne sentivamo realmente il bisogno?
il Museo e Tesoro del Duomo di Monza conserva una caterva di oggetti di importanza primaria nel panorama storico-artistico medievale: sceglierne uno di cui scrivere qualche riga è del tutto arbitrario. dato che tutti vi aspettate qualcosa legato a Teodolinda, vi faccio, piuttosto, vedere il cosiddetto dittico del Poeta e della Musa che è, per me, stando all’analisi di Fabio Troncarelli, uno degli oggetti più commoventi che l’umanità abbia mai saputo realizzare. in poche parole: i due personaggi raffigurati sarebbero Severino Boezio e la moglie Rusticiana e il dittico sarebbe stato commissionato da Simmaco (padre di Rusticiana, filosofo e uomo politico della Roma tardoantica, nonché tutore di Boezio) in un momento di poco successivo alla morte del filosofo, avvenuta nel 524/526. il punto è che tenere viva la memoria di Boezio in un clima che fortemente lo aveva avversato (tra congiure, illazioni e sospetti vari alla corte di Teodorico, seguiti ad anni in cui Boezio era stato una sorta di braccio destro culturale del sovrano) era un rischio per Simmaco stesso, che infatti fu ugualmente condannato a morte da Teodorico.
Severino Boezio è stato ucciso nel 524/526, dunque, dopo un periodo di prigionia a Pavia o dintorni: la tradizione vuole che la cella, dove Boezio scrisse il “De Consolatione Philosophiae”, si trovasse a Vizzolo Predabissi, in provincia di Milano, verso Lodi. e, infatti, lì, una lapide marmorea sul fianco della basilica di Santa Maria in Calvenzano ricorda la prigionia di Boezio. ora, posto che a Vizzolo c’è nato Francesco Acerbi (il calciatore dell’attuale Inter che più vorrei conoscere, tenendo conto che a Darmian non avrei granché da dire) e sia per me che per mio padre questa è sempre stata una ragione sufficiente per recarci in visita, la chiesa si merita un giretto in provincia.
cercando perdono dopo l’omissione longobarda a Monza, i Musei Civici di Pavia sarebbero il posto giusto dove trovarlo, eppure mi tocca menzionare l’incredibile silla plicatilis di IX/X secolo rinvenuta in città nel 1949, durante i lavori per la ricostruzione del Ponte Coperto. è inutile girarci attorno: si tratta sostanzialmente di un pezzo unico e la cosa mi permette di ribadire per la millesima volta che i Musei Civici di Pavia sono un vero e proprio scrigno di tesori (valga su tutte la menzione dell’imponente modello ligneo di fine Quattrocento del Duomo pavese: si contano sulle dita di una mano i modelli rinascimentali conservatisi integri) dove vorrei chiunque passasse almeno un pomeriggio della propria vita.
nove volte su dieci, quando si parla di Santa Maria presso San Satiro, la conversazione si svolge così (dove A è il mio interlocutore e B sono io, per massima chiarezza, non si sa mai): A. ieri ho visitato Santa Maria presso San Satiro, bellissima l’illusione prospettica di Bramante! / B. eh sì, poi c’è, appunto, San Satiro, il sacello carolingio, il custode a volte chiude un occhio e ti fa entrare / A. no, non l’ho proprio visto quello: ma è in chiesa?
esattamente al centro di quel rombo che ha Milano, Bergamo, Brescia e Crema agli angoli, a pochi kilometri da Treviglio, si trova il convento dei Neveri, che oggi è un ristorante. ne scrivo qui senza esserci ancora stata, in realtà, ma per la sua eccezionalità non può essere tralasciato in un itinerario attorno al capoluogo lombardo. qui si conserva, infatti, seppur lacunoso, l’unico ciclo di pittura romana (fine IV secolo) in tutta la Lombardia: roba da confrontare con le catacombe, per capirci.
se avete bisogno di un momento di calma e silenzio a Milano, andate in piazza Tomasi di Lampedusa (ma non durante la pausa pranzo, ché tutti i colletti bianchi degli uffici vicini vi si riversano con le loro nauseabonde schiscette). con un solo colpo d’occhio, mentre riallineate i chakra, potete vedere la torre dei Gorani (unica torre nobiliare medievale rimasta in piedi a Milano: sta lì dall’XI secolo ed è miracolosamente scampata ai bombardamenti del 1943), lo scavo archeologico del palazzo imperiale di Mediolanum e alcuni resti di mosaici (osservabili tramite degli oblò puntualmente appannati, dunque osservabili poco e male, già).
la biblioteca civica di Abbiategrasso (non la fermata della M2: il comune) è ospitata nel castello visconteo del paese, una struttura che mostra nelle sue forme la sua evoluzione storica avvenuta tra XII e XV secolo, con il passaggio da rocca difensiva a dimora gentilizia. negli anni ‘90 del secolo scorso, quando è stata istituita la biblioteca, sono stati portati alla luce molti metri quadri di affreschi sia nel cortile interno che nelle sale, su entrambi i piani. sulle pareti si legge “a bon droit” (“a buon diritto”), motto visconteo suggerito da Petrarca a Gian Galeazzo.
ultimo, ma non ultimo, finalmente i Longobardi. al Museo Archeologico di Milano sono esposti materiali di vario tipo che facevano parte dei corredi di alcune tombe di individui di alto rango, risalenti alla metà del VII secolo e rinvenute a Trezzo sull’Adda negli anni ‘70 del secolo scorso. con ogni probabilità l’oggetto più famoso è l’anello-sigillo d’oro, ma mi piace di più menzionare l’umbone (vale a dire la parte centrale dello scudo, un rinforzo fatto di metallo) con applique in rame dorato. queste lamine decorative sono parecchio danneggiate, una addirittura manca, mentre perfettamente conservate sono quelle - concedetemi, giunta alla fine, un viaggio fuori dalla Lombardia - di Lucca. queste non decoravano l’umbone, bensì il piatto dello scudo e prima di vederle ci ho impiegato tre viaggi: la prima volta la sezione altomedievale non era agibile, perché Villa Guinigi era in riallestimento; la seconda volta tutto il corredo di cui fanno parte era in prestito per una mostra a Grosseto (e quella volta ero accompagnata da Elisa alla quale avevo fatto una testa tanta con ‘ste lamine e che è scoppiata a ridere quando ha visto la vetrinetta vuota e la mia faccia sbiancata all’improvviso); la terza è stata quella buona.
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