ciao amori della titti, ché se siete iscritti siete automaticamente miei amori, volenti o nolenti (poi del significato della parola “amore” possiamo pure parlarne). nella vita reale sono una persona disordinata e priva di metodo (non ho placements Vergine: c’era da aspettarselo), dunque mi sono auto-imposta di essere estremamente schematica, rigorosa e concisa almeno nella newsletterotti!
ogni 27 del mese troverete uno stralcio di qualcosa che ho letto, un commento su qualcosa che ho mangiato, un pensiero su qualcosa che c’entra con il medioevo. c’è anche un bonus d’apertura: il santo o la santa del giorno, così potrete fare gli auguri a qualcuno che si chiama così (anche se non siete credenti, solo perché l’agiografia è una bella roba)! eccovelo, il servizio pubblico.
in fondo (ben nascosto) trovate il pulsante “unsubscribe” se (lecitamente) non vorrete più saperne di me, prima o poi. ora, però, iniziamo!
BONUS D’APERTURA – IL SANTO DEL GIORNO
oggi è un gran giorno, perché è il mio compleanno e quando voi aprirete questa becera newsletter io sarò ad Alicudi si celebra san Cirillo d’Alessandria, che magari non vi suona granché famoso, ma, in realtà, è un personaggio fondamentale per la Storia della cristianità. infatti, durante il concilio di Efeso del 431 fu lui che si batté contro Nestorio, capo della chiesa di Antiochia - mentre Cirillo, per l’appunto, guidava la chiesa alessandrina. Nestorio e Cirillo erano in disaccordo sulla natura di Cristo e, conseguentemente, anche su quella di Maria. secondo il nestorianesimo, infatti, Cristo aveva sì in sé due nature - umana e divina - che, però, dovevano essere concepite come diverse, senza alcuna unione ipostatica (mi sembra di star scrivendo la tesi triennale più che la newsletterotti, vabbè). le ipostasi sono, per farla breve, i diversi gradi della realtà, prodotti ed emanati gerarchicamente dall’essere divino. quindi, secondo Nestorio Gesù era un uomo - come tutti - abitato in un certo grado e modo da Dio e, così, certamente dotato di una superiorità morale. Cirillo d’Alessandria, al contrario, sosteneva la dualità sostanziale di Cristo, derivante non da un primato etico-psicologico, bensì dall’effettiva divinità della sua persona: sarà la posizione vincitrice durante il concilio (tant’è che Nestorio verrà deposto dal suo ruolo di patriarca di Antiochia), nonché nella storia del cristianesimo. come anticipato, al problema cristologico si legava quello mariano: il concilio di Efeso è solitamente ricordato come quello in cui venne, infatti, definito il dogma della Theotokos, ossia di Maria come Madre di Dio, in opposizione alla definizione di Christotokos, cioè Madre di Cristo. questo perché, appunto, veniva ufficialmente sancita la doppia natura di Gesù che era Dio in forma d’uomo, e non un uomo abitato dallo Spirito Divino (chi studia storia delle religioni, teologia ecc è un pazzo, lo so, è tutto un casino fatto di sottigliezze ed enormi punti di domanda mentali).
fun fact che non è affatto fun: Cirillo è anche stato coinvolto, come mandante, nella morte di Ipazia - sì, lei, la scienziata e filosofa neoplatonica, quella famosa. nel 415 Ipazia fu vittima di un pestaggio-assassinio che non saprei come definire se non squadrista voluto dal nostro caro Cirillo e compiuto da una banda di suoi bravi manzoniani, tutti monaci, capitanati dal “lector” Pietro. Ipazia fu catturata, denudata, lapidata, fatta a pezzi e bruciata: tutto avvenne ad Alessandria in un clima di vendette, ripicche e giochi politici tra Cirillo, Oreste (prefetto della città, nonché amico di Ipazia) e altre figure a loro vicine. la morte della filosofa è raccontata sostanzialmente in presa diretta da Socrate Scolastico, un autore cristiano vissuto a cavallo tra IV e V secolo, come Ipazia, appunto: è una fonte autorevole e valida, ma nonostante ciò nella storia della storiografia cristiana si è fatto di tutto per ripulire l’immagine di Cirillo. passano i secoli, ma certe cose non cambiano mai: siam nati così e così moriremo.
UNO – ROBA CHE LEGGO
l’estate è ormai ufficialmente iniziata e c’è un libro che rileggiucchio ogni anno in questa stagione, un po’ a pezzi, un po’ saltando qua e là, un po’ tornando indietro, un po’ lasciando che le pagine le sfogli il vento quando mi dimentico il libro aperto sul tavolo in balcone. si tratta de “L’anonimo lombardo” del mio adorato concittadino Alberto Arbasino. è un romanzo epistolare e la sequenza delle due lettere qua sotto è tra le mie preferite di tutto il libro: sarà un “Roba che leggo” lunghetto, oggi. sarà anche un po’ un problema rendere graficamente l’impaginazione (infatti, benché si tratti di narrativa, le note a piè di pagina pseudo-accademiche sono fondamentali) e, però, ci provo.
“IV. Caro Emilio,
ma ti rendi conto che questo ragazzo si è veramente innamorato di me? E anch’io gli voglio molto bene, puoi credermi, sto provando che cosa è una «cotta». Ne sono entusiasta. Non ricordavo di esser passato attraverso niente di simile. È questa la «liaison seria» che sognavo? Bisognerà che mi adegui a questa condizione. Roberto è esigentissimo e molto geloso; oramai passiamo i nostri pomeriggi tutti quanti facendo l’amore in via Proust, l’appartamento è della zia, che è proprietaria di una boutique in centro e sta fuori tutto il giorno, perciò noi stiamo in letto ogni giorno dalle due e mezza alle sei e mezza [20].
[20] Il nostro Anonimo scioccamente dice che lui confida che tra i 20 o 25 lettori che hanno avuto la solita cortesia di seguirlo fin qui, non vorranno farci il torto di mostrare la banalità di credere che in codesto «interno» ci si abbandonasse alle consuete vie di fatto carnali, non già deplorevolissime, forse, però intollerabili per l’usura effettuatane dalla descrittività letteraria coi turgori e i fiatoni e l’eventuale ingrandimento giudiziario che riesce a trasformare il più delizioso «piccolo capolavoro» in un caso tra i più fastidiosi e ingombranti. Dedite, se mai, a cineserie più rococo, le due creature perdute di via Proust trascorrevano que’ pomeriggi senza testimoni né narratori «onniscienti», quelle interminabili e non-descript intermittenze, in passatempi che il buon lettore potrà con qualche verosimiglianza immaginare o a piacer suo scegliere nel seguente ventaglio di opzioni:
l’irritante lettura del Serpente Piumato di Lawrence, unico volume posseduto dalla zia (nella traduzione della Medusa, giacché Roberto non ha mai saputo l’inglese, e l’altro lo sa poco);
la verniciatura delle pareti con le moderne pitture plastiche e i rulli;
la preparazione di stracciatelle in brodo, con uova e formaggio freschissimi;
la soluzione di parole incrociate, magari quelle della «Domenica del Corriere»;
il giuoco della zecchinetta, del diabolo, del volano;
l’ascolto dell’unico disco appartenente alla zia, quella Cavalleria Rusticana a 78 che si apre con la voce tremolacchiante e cavernosa dell’autore che dice «io sono Pietro Mascagni, e sono proprio io che dirigo la mia opera» - stupendo pendant al finale di Citizen Kane col «my name is Orson Welles».
V. Caro Emilio,
certo mi piace e gli voglio moltissimo bene, ma a troppi cambiamenti del mio modo di pensare dovrei adeguarmi [21]. Io non ero abituato a un rapporto come questo, esclusivo fino a assorbire tutta la mia giornata. Me ne mancava l’attrezzatura mentale, intendi; mi ama, mi ama, oh, oh, questo è certo, ma in misura eccessiva, morbosamente direi, fino al punto di soffocarmi, di non lasciarmi nessun margine libero [22]. Io sono stato sempre attivissimo, sai bene, e le mie giornate sono notevolmente intense; bene, per stare con lui, da qualche tempo ho lasciato perdere tutto, solo amore, sempre amore, dalle due e mezza alle sei e mezza ogni pomeriggio, nient’altro che amore [23]. Ma in questi giorni le lezioni riprendono; ma ho altri impegni che non posso più trascurare. Tutti questi appointments sono insulti per lui: lo vedo impallidire, addolorarsi sinceramente, vicino a piangere sono convinto. Se guardo l’orologio lamenta che non aspettavo che quel momento per lasciarlo. Se devo andare a una esercitazione di abilità specializzata (e bisogna che ci vada, Jesus Christ, per farmi vedere dall’assistente, se no quello è capace di fregarmi un’altra volta all’esame) dice che invece quel giorno si era ripromesso, ecc… Mettiamo che alle cinque e mezza ci sia un concerto di Primrose: come fargli entrare in testa che è una occasione rarissima, oltre che importante, che per anni non si ripeterà? I violisti sono tanto pochi… Io vedo che soffre, e conclude che gli antepongo qualunque cosa. Quando afferma che per me lascerebbe perdere questa «qualunque cosa» io lo so che è perfettamente sincero. Ma come si fa a fargli capire? Io ho troppo da fare; le ore contate; le sere impegnate. E oggi mi sono imposto: scena di disperazione da parte sua; io, prova di forza. C’era da vedere un film-operetta con musica di Kurt Weill, vecchissimo, ripassava per puro miracolo: Lady in the Dark, capisci? no, ti rendi conto? L’ho lasciato lì (non gli bastavano quasi tre ore di letto?) e ci sono andato. È un musical geniale su scenari onirici-surrealistici, squisito, perfido, carico di sense of humour, e qualcuna delle canzoni l’avevo già sentita a Roma a casa di Enzo, ne ha un paio di dischi in quell’album comprato a Porta Portese, sai, quando ci vanno la domenica mattina facendosi accompagnare (come attendenti portapacchi) dai militari pescati la sera prima al mercato degli schiavi di Piazza Mazzini… e domandano a tutti quelli che incontrano: «L’è di Bergamo anche lei? L’ha già letto l’Oscar Wilde?»
[21] Je plains, sans l’accuser, un amant si parfait? (Marceline-Desbordes-Valmore, Adieu, mes Amours)
[22] Now, Marco dear, / My wishes hear: / While you’re away / It’s understood / You will be good /And not too gay… (W. S. Gilbert, The Gondoliers, I)
[23] Vedasi nota precedente. Anche la 103. E ricordisi che: «Non curiamo l’incerto domani / Se quest’oggi n’è dato goder» (odesi un lugubre suono e voci lontane che cantano flebilmente) «Le gioja de’ profani / È un fumo passegger». (Felice Romani, Lucrezia Borgia, II, 5)”
DUE – ROBA CHE MANGIO
(poche sere fa ero a cena con amici ed è uscito l’argomento “gelaterie che costano tanto”: quando ne abbiamo parlato, avevo già scritto questo segmento, ma sono stata zitta e ho ascoltato quali fossero le loro gelaterie care-ma-preferite con piacere, annotandomi qualche nome. qui sotto, invece, ci sono le mie.)
per quanto possa sembrare banale affrontare l’argomento “gelato” a fine giugno, se scrivo di tre gelaterie buonissime, son convinta che la banalità si perda. le prime due sono da radical chic disposta a spendere 13,72€ per un cono piccolo, ma pur sempre contraria alla gentrificazione; la terza è da persona che vorrebbe pagare la colazione (per un totale di 2.70€) con la carta e la proprietaria del locale le dice “no, no”, e ok, non chiamerò la guardia di finanza nemmeno questa volta, solo perché vi voglio bene (però lo scrivo placidamente su internet).
Ciacco fa il gelato più buono d’Italia, punto. potrei anche rifiutarmi di andare oltre con le spiegazioni e le informazioni. se siete a Milano oppure a Parma, città in cui Ciacco nasce, non potete perdervelo. ai gusti più classici - crema, cioccolati vari, nocciola… - affiancano pazzie dai nomi poetici che naturalmente non ricordo perché davvero troppo lunghi ed elaborati (come lo chiamereste voi un gelato al burro salato con crema di bourbon e manco mi ricordo che altro? in ogni caso, tralasciando il nominalismo, era un prodigio culinario). oltre al gelato vendono anche colombe, biscotti, creme spalmabili: così quando aprite l’armadietto della cucina e vedete il loro logo vi viene da piangere perché non avete un bel cono in mano.
LatteNeve in via Vigevano a Milano, senza posti a sedere, solo il bancone dei gelati ad accogliervi dopo un’intensa, sudaticcia sessione di shopping dal non lontano Surplus. anche qui gusti pazzi: Torta di Carote, Caffè al Cardamomo, Petali di Rosa, Noci di Sorrento e Fichi, Grigio Milano (vale a dire arachide salata e sesamo: sarà campanilismo, ma questo gusto è il migliore).
Da Cesare che è un po’ un’istituzione a Pavia: è il classico posto sincero che ti scalda il cuore, o meglio te lo raffredda, perché ti prendi la coppa due gusti Cannella-Zafferano e sei automaticamente più felice. peraltro, il locale è in corso Garibaldi che, per me, è la strada più affascinante di tutta la città: ogni volta che ci capito penso che vivrei bene, se vivessi lì; ci sono i gelati di Cesare, la basilica di San Michele e Iucu. lo dico da anni e continuerò a ripeterlo: andateci, a Pavia, che è bellissima, e non se la fila mai nessuno.
TRE – ROBA CHE STUDIO
nell’ultimo periodo sono stata un po’ presa con la stesura di un (pessimo) articolo a metà tra il rigidamente accademico e lo sperimentale che mi ha portata a leggere molti più studi di genere rispetto al mio solito. quindi, oggi è il caso di parlare di un trio di figure femminili che mi stanno un po’ a cuore: Gambara, Ansa e Gisla.
nella “Historia Langobardorum” di Paolo Diacono emerge un chiaro pattern del potere femminile. tralasciando il più celebre caso di Teodolinda, una figura davvero mitologica - che, infatti, compare all’inizio della narrazione, quando la Storia si mischia visibilmente alla Leggenda, per dire stesso dell’autore - è quella di Gambara, madre dei fratelli Ibor e Aio. fu grazie a Gambara, che si rivolse alla dea Frea, moglie di Odino, che i Longobardi riuscirono a sconfiggere i Vandali mentre erano in Scoringa, sul mar Baltico, dopo esser scesi dalla Scandinavia. Frea suggerì a Gambara di presentarsi con tutte le altre donne del suo popolo sul campo di battaglia l’indomani mattina sciogliendosi i capelli e coprendosi con essi i visi, come se avessero la barba; Odino avrebbe decretato vincitore il primo popolo visto al sorgere del sole. Frea riuscì a far volgere Odino verso Gambara e compagne, garantendo loro il trionfo. peraltro, in quel momento Odino avrebbe chiesto: “chi sono quelle lunghe barbe?” da cui il nome Longobardi; infatti, fino a quel momento si chiamavano Winili. è una leggenda estremamente interessante per svariati motivi che si sommano e contraddicono l’un l’altro. il fatto che la vittoria, ma anche l’identità (ossia il nome) del popolo sia da attribuirsi a una donna, in unione con una dea, e non a un uomo o a un dio della guerra (maschio, forte) è già una notizia. a questo si aggiunge il fatto che le donne l’hanno vinta sostanzialmente truffando gli uomini con i loro stessi mezzi, mascolinizzando la loro apparenza fisica fingendo di avere la barba: c’è chi lo vede come femminismo sofisticato, chi come negazione del valore della “femminilità”. a quest’ultimo dato, poi, si lega il fatto che alcuni abbiano interpretato questa leggenda come il tentativo di spiegare e legittimare il passaggio da una società matriarcale-matrilineare a una dominata dagli uomini. infatti, Gambara apre la strada del potere ai suoi due figli maschi dopo la sconfitta dei Vandali.
c’è, poi, Ansa, ultima regina dei Longobardi, moglie di Desiderio. una cosa che ho appreso mentre tentavo di scrivere l’articolo menzionato in apertura è che, nei diplomi emanati a nome della coppia regale, per Ansa venivano resi al femminile tutti quei termini tipicamente associati al re, dunque: “domina excellentissima; gloriosa e gloriosissima; felicissima; praecellentissima; reverentissima”. dal 774, quando Carlo Magno conquisterà il regno longobardo, la regina di turno prenderà a essere semplicemente indicata come “coniunx” del re, facendo di fatto sparire l’indicazione di “regina”. non voglio dire che i Longobardi fossero migliori dei Franchi, e, però, insomma, dai…
la donna medievale a cui, però, voglio più bene (almeno in questo momento) è la marchesa Gisla, moglie di Anselmo, figlio di Aleramo, capostipite della dinastia che governò sulla cosiddetta marca aleramica. questa era una delle quattro circoscrizioni territoriali in cui si divideva il territorio compreso tra Lombardia, Liguria, Val d’Aosta, Piemonte ed Emilia nell’Italia post-carolingia; la marca aleramica era una lingua di terra che, con andamento verticale, copriva l’area tra Chivasso e Savona. Gisla compare a livello documentario in una pergamena del 991 insieme al consorte: era figlia del marchese Adalberto di Toscana e, fino al matrimonio, con il quale passò alla legge salica, aveva seguito la legge longobarda (infatti, all’epoca la legge non era statale, bensì personalistica). la pergamena è l’atto di fondazione del monastero di San Quintino di Spigno: qui, benché in condizioni conservative davvero pessime, si conserva un dipinto murale di una figura femminile elegantemente vestita, con un motivo decorativo a forma di cuore che decora l’abito, priva di aureola o nimbo. considerati questi elementi, uniti alla fondazione laico-marchionale della chiesa, è stato ipotizzato che la donna ritratta sia proprio Gisla. non c’è certezza, ma a me piace crederci.
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