ciao amori della titti, ché se siete iscritti siete automaticamente miei amori, volenti o nolenti (poi del significato della parola “amore” possiamo pure parlarne). nella vita reale sono una persona disordinata e priva di metodo (non ho placements Vergine: c’era da aspettarselo), dunque mi sono auto-imposta di essere estremamente schematica, rigorosa e concisa almeno nella newsletterotti!
ogni 27 del mese troverete uno stralcio di qualcosa che ho letto, un commento su qualcosa che ho mangiato, un pensiero su qualcosa che c’entra con il medioevo. c’è anche un bonus d’apertura: il santo o la santa del giorno, così potrete fare gli auguri a qualcuno che si chiama così (anche se non siete credenti, solo perché l’agiografia è una bella roba)! eccovelo, il servizio pubblico.
in fondo (ben nascosto) trovate il pulsante “unsubscribe” se (lecitamente) non vorrete più saperne di me, prima o poi. ora, però, iniziamo!
BONUS D’APERTURA – IL SANTO DEL GIORNO
immaginate che io lo dica con la voce di Nino Frassica: auguri a tutte le Agostine e gli Agostini. oggi, infatti, si celebra sant’Agostino di Canterbury: abate benedettino vissuto a cavallo tra VI e VII secolo, molto meno celebre del suo omonimo Agostino di Ippona, fu il primo arcivescovo della città a cui il suo nome si lega. fu inviato in Inghilterra da papa Gregorio Magno su richiesta di Etelberto, re del Kent, che aveva sposato Berta, figlia del re cristiano merovingio Cariberto, in un momento in cui, con l’invasione dei Sassoni, in Inghilterra stava nuovamente prendendo piede il paganesimo. lo stesso Etelberto non era cristiano, ma si dimostrò molto tollerante, facendo anche costruire una chiesa alla moglie: è grossomodo la stessa cosa che fecero certi re longobardi. per esempio, Agilulfo e Rotari, che sposarono rispettivamente le cattoliche Teodolinda e Gundeperga (che era, poi, figlia di Teodolinda e Agilulfo), conservarono la loro fede ariana - che sì, non è paganesimo, ma i rapporti tra ariani e ortodossi non erano dei migliori, in ogni caso.
e anche oggi sono riuscita a parlare di Longobardi benché non ce ne fosse il minimo bisogno o presentimento: direi che il mio l’ho fatto.
UNO – ROBA CHE LEGGO
tendo, purtroppo, a essere diffidente nei confronti di quei libri scritti dalle giovani promesse finaliste dei premi letterari, motivo per cui, nonostante un lungo corteggiamento reciproco, durato mesi, avevo preferito tenermi lontana da “La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera”, opera prima di Alberto Ravasio, bergamasco classe ‘90. poi, però, ho ceduto, anche perché uno dei miei librai di fiducia me l’ha descritto come “un bell’esercizio di stile che riesce a fare quel che si propone di fare abbastanza bene”. e, quindi, eccoci:
“Sputacchiera questa volta lesse molto, si appassionò, s’irrobustì il pensiero, perse i peli sulla lingua e gli spuntò il senso critico, la dentatura del giudizio, ma se a Lettere aveva fallito per difetto, ritirandosi causa sedicente manifesta superiorità, a Filosofia fallì per eccesso, portando all’esame solo digressioni, voli pindarici invalutabili, davanti ai quali i docenti rispondevano: «Lei è un ciarlatano. Non ha capito nulla e vuole spiegare tutto. Ascolti il nostro consiglio malevolo: si dia all’ippica, possibilmente come equino». Esami falliti a parte, Sputacchiera cominciava a perdere fiducia non tanto in se stesso, perché in fondo aveva sempre avuto l’autostima di un cassonetto, ma nell’istruzione superiore: se anche, dopo anni di scoliosi e dipendenza da caffeina, si fosse laureato, non avrebbe ottenuto nulla più di quel che già aveva, ossia niente di niente, e questo per due ragioni, una particolare e una generale.
Primo: la massificazione dell’esperienza universitaria, con orde di figli di operai che volevano diventare ingegneri, non aveva democraticizzato l’istruzione, ma al contrario l’aveva compromessa, trasformandola in un diplomificio. Ora che tutti l’avevano, la laurea non bastava più, occorreva rafforzarla con specialistiche all’estero, viaggi di studio, conoscenza di lingue esotiche, tutte integrazioni che facevano rientrare dalla finestra quel che la massificazione aveva cercato di cacciare dalla porta, vale a dire il classismo insito nell’esperienza universitaria. La laurea di oggi era la quinta elementare del popolo primonovecentesco.
Secondo: prestando ascolto al quotidiano pessimismo giornalistico-mediatico, la generazione di Sputacchiera non solo era perduta, ma era una generazione perduta in partenza, sin dall’utero. Ancora prima di iscriversi all’università uno sapeva che non avrebbe trovato lavoro, perché c’era crisi, e ancora prima di trovare lavoro uno sapeva che non sarebbe stato fisso, perché c’era crisi, e se anche fosse stato fisso non ci sarebbe mai stata la pensione, perché c’era crisi: la sola cosa che non fosse in crisi era la crisi stessa. Applicando la proprietà transitiva, un treenne poteva concludere che non aveva senso iscriversi all’asilo visto che comunque non avrebbe ottenuto la pensione. A questo punto le soluzioni erano due: perseverare nel torto, iscriversi all’asilo, condurre tutto il cardus (dis)honorum, fallire e sentirsi dire «Te l’avevamo detto!» oppure restare fermo e farsi dare del fallito subito.”
DUE – ROBA CHE MANGIO
ode al pasticcio di maccheroni alla ferrarese. non ho mai mangiato una cosa così buona e sono felice di averla gustata, per la prima volta, in quello che pare essere il locale-taverna-osteria più antico del mondo, ossia il brindisi di Ferrara, appunto, di cui si ha notizia a partire dal 1435. Copernico, che viveva lì sopra, beveva sempre senza pagare: le grandi menti si alimentano così. come tutte le migliori ricette della tradizione, il pasticcio ognuno lo fa come meglio crede: chi con la frolla (per me, ho appurato, è la versione migliore, perché il dolce si sente con tutta la sua potenza) e chi con la brisée; chi ci mette il tartufo e chi solo il ragù bianco (non fraintendetemi: il tartufo è cosa buona e giusta, ma io lo apprezzo soltanto mangiato a scaglie, che te lo puoi gustare in sé, motivo per cui nel pasticcio non ce lo voglio). da grande amante che sono del contrasto culinario dolce/salato (viva il miele con i formaggi, viva la frutta nel risotto), non potevo farmi scappare l’occasione di assaggiare un piatto il cui involucro esterno è letteralmente l’impasto di una torta, mentre dentro ci sono maccheroncini e carne.
il brindisi, proprio per la sua anzianità, è un luogo celebre: solitamente - come mi hanno insegnato i miei genitori - sto lontana dai locali più conosciuti, ché spesso preferiscono la quantità alla qualità e ci va la gente che non sa distinguere un buon piatto da un piatto mediocre: basta dire di averlo mangiato, di aver mangiato “tipico”. tuttavia, il brindisi è stato quella piacevolissima eccezione che conferma la regola. oltre al buon cibo (tutto, non solo il pasticcio) e al buon vino (roba inenarrabile), il luogo mantiene un certo fascino, con un servizio da vera osteria (d’altronde, il nostro cameriere era di Bologna o, come ha detto lui, “della capitale”, e con i bolognesi DOC è dura non farsi due risate) e un cuoco molto bello con i capelli lunghi castani ah no scusate mi sono distratta. questa de facto mancanza di turisticizzazione del locale mi ha davvero colpita, ed è stata un leitmotiv dei due giorni che ho trascorso a Ferrara: non ho mai visto uno di quegli obbrobriosi cartelli plastificati acchiappa-turisti che propongono menù tipici (la pizza a Venezia, l’amatriciana a Milano…); non ho mai visto una guida dalla dubbia preparazione offrire visite in giro per la città raccattando la gente fuori da qualche bar; non ho mai visto la mercificazione ostentata di anche soltanto una delle meraviglie ferraresi, che sono davvero molte.
Afra, titolare della trattoria il mandolino, ci ha raccontato che sua mamma (storica proprietaria di un altro ristorante, ora gestito da un’altra figlia: che bella famiglia!) ha passato 60 anni a cucinare per i turisti e non se n’è mai pentita, perché tanto cucinava quello che voleva lei e come voleva lei, e i turisti, naturalmente, apprezzavano. ancora oggi, fuori da il mandolino, dipinto sulla parete, c’è un riquadro in cui si legge: “Cari turisti, stiamo facendo i cappellacci di zucca in modo tradizionale, vi aspettiamo, ciao…”. e, dunque, di turisti in città ce ne sono eccome e sono ben voluti: me ne sono accorta anch’io, sentendo, nei musei e nelle strade, accenti di tutt’Italia e parole in francese, tedesco o inglese. Ferrara, con le sue piazze dechirichiane, sembra davvero sospesa nel tempo, del tutto noncurante del baratro in cui un certo tipo di turismo ha fatto piombare il resto d’Italia: una piccola oasi dove, per una volta, è il turista - per non si sa quale forza cosmica superiore - a piegarsi (piacevolmente, morbidamente, senza fatica) al volere cittadino e non il contrario. e sia ben chiaro: io, in quanto persona che si sposta e adora farlo, sono parte integrante della questione. non sono ancora così megalomane da pensare di essere meglio degli altri: di alcuni sì, certo, ma di tutti no.
(sono stata a Ferrara nell’unico intervallo di pace tra certi giorni infernali per gli emiliani e i romagnoli: quelli in cui si sono rotti gli argini di innumerevoli fiumi; quelli in cui Faenza e Cesena e Lugo, tra le altre, sono state sommerse; quelli in cui nel bolognese è crollato un ponte a causa dell’impeto dell’acqua che, nella mia testa, risuona ogni volta come la “Dolcenera” di De André; quelli in cui si sono contati, oltre che i danni materiali alle cose, i morti. non so se quando uscirà questa newsletter la raccolta fondi sarà ancora attiva, ma nel caso lo fosse potete donare qualcosa alla Croce Rossa dell’Emilia-Romagna qui oppure direttamente alla Regione qua. è una terra a cui voglio bene, non ho altro da dire e non voglio dire altro.)
TRE – ROBA CHE STUDIO
avrei passato un’intera giornata chiusa nel museo della cattedrale di Ferrara a contemplare il ciclo dei mesi, distratta unicamente, talvolta, dalle possenti ante d’organo di Cosmè Tura. insieme alle formelle di questo ciclo stanno le poche sopravvissute dedicate ai segni zodiacali, tra cui quella dove uno dei due Gemelli si arrampica su un albero per raccoglierne i frutti affiancato dal Cancro. il fatto che i due segni convivano (serenamente in quest’opera, da cani nella vita reale…) nello stesso blocco è solo uno dei tanti sintomi della grandezza dell’anonimo maestro che scolpì questa serie di scene: la continuità spaziale del ciclo dei mesi e dello zodiaco di Ferrara è di una modernità quasi imbarazzante per il panorama italiano dell’epoca, la prima metà del XIII secolo. nella formella con Giano Bifronte, di gennaio, ad esempio, il personaggio alza il braccio per reggere un coperchio che spunta dal fondo del blocco lapideo. il recipiente da cui il coperchio è sollevato, però, si trova nella formella di febbraio: è un pentolone in cui cuoce il sanguinaccio, mentre altri salumi stanno appesi sopra; di fianco, la personificazione di febbraio si fa gli affari suoi, dando le spalle alla “cucina” e tagliando la legna.
il Cancro ferrarese, a differenza di quella che è l’immagine più comune che oggi si ha del segno, non è un granchio, bensì un’aragosta - così come a palazzo Schifanoia. se, infatti, nell’italiano corrente i due animali sono indicati da nomi ben diversi, secoli addietro le cose non stavano così: in greco antico e in sanscrito si usava un solo termine per indicare granchi, aragoste e gamberi, accomunati dall’evidente caratteristica di avere le chele. la “confusione” è continuata a lungo: ad esempio, in alto-tedesco antico (parlato tra l’VIII e l’XI secolo nella Germania centro-merdionale) il termine “kerbiz” indicava genericamente quei crostacei che potevano essere mangiati. tra XVII e XVIII secolo, arrivando fino a Linneo, si fece maggiore chiarezza nella nomenclatura di questi animaletti. benché non sia una verità assoluta, si è osservato che il Cancro veniva solitamente rappresentato con la forma del crostaceo più comune e conosciuto nella zona in cui veniva realizzata l’opera: è, così, più facile trovare il granchio nel bacino mediterraneo, lungo le coste, mentre gamberi e aragoste sono più diffusi nell’entroterra, dove l’acqua è dolce.
trovo meravigliosa la varietà figurativa cancerina, e naturalmente è perché ho un occhio di riguardo per questo segno zodiacale. non me ne vogliano gli altri animali astrologici, ma, benché parta da un presupposto differente - ossia la mancata differenziazione storica tra i vari crostacei - questa varietà riflette una situazione tutt’ora concreta: le specie di granchio si mostrano estremamente diverse tra loro, molto più di quanto non lo facciano quelle taurine o leonine. il granchio pom pom, il granchio ragno giapponese, il granchio caramella, il granchio samurai (aprite questo link, per il vostro bene), il granchio scatola: che grandissima, meravigliosa confusione. avete presente la valanga di meme sulla carcinizzazione, quel processo di convergenza evolutiva per cui “tutto vuole diventare granchio” (uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci…)? ecco, a guardare certi granchi pare che loro, invece, vogliano essere tutto fuorché il prototipo di loro stessi. sono animali estremamente sottovalutati e trascurati nella vulgata astrologica e nell’immaginario da essa derivato - forse perché Carcino - il granchio gigante mandato da Era ad attaccare Ercole mentre lottava con l’Idra di Lerna - fu sconfitto e ucciso? quando la carcinizzazione planetaria sarà completata, avrete ben poco da ridere dei granchi.
(ma io dovevo scrivere di Medioevo?)
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