ciao amori della titti, ché se siete iscritti siete automaticamente miei amori, volenti o nolenti (poi del significato della parola “amore” possiamo pure parlarne). nella vita reale sono una persona disordinata e priva di metodo (non ho placements Vergine: c’era da aspettarselo), dunque mi sono auto-imposta di essere estremamente schematica, rigorosa e concisa almeno nella newsletterotti!
ogni 27 del mese troverete uno stralcio di qualcosa che ho letto, un commento su qualcosa che ho mangiato, un pensiero su qualcosa che c’entra con il medioevo. c’è anche un bonus d’apertura: il santo o la santa del giorno, così potrete fare gli auguri a qualcuno che si chiama così (anche se non siete credenti, solo perché l’agiografia è una bella roba)! eccovelo, il servizio pubblico.
in fondo (ben nascosto) trovate il pulsante “unsubscribe” se (lecitamente) non vorrete più saperne di me, prima o poi. ora, però, iniziamo!
BONUS D’APERTURA – IL SANTO DEL GIORNO
oggi la chiesa cattolica festeggia san Giovanni Apostolo ed Evangelista: se san Sebastiano non fosse diventato un’icona gay, sicuramente quel ruolo gliel’avrebbe rubato lui, il genderfluid per eccellenza dell’iconografia sacra (nelle menti di certi complottari che hanno una copia autografata de “Il codice Da Vinci”, vabbè).
a novembre sono stata a Ponte, in Valtellina, dove nella chiesa di San Maurizio c’è un ciclo scultoreo (davvero incredibile, quasi senza senso, sul piano stilistico) composto da dei tondi con i busti degli apostoli. è, tuttavia, un ciclo incompleto: ce ne sono in loco solo otto su dodici. un nono tondo, raffigurante proprio Giovanni Evangelista (motivo per cui parlo di Ponte: non sono pazza, non ancora, non del tutto), è emerso dalle profondità dei mari dell’antiquariato e del collezionismo privato in occasione di una mostra dedicata ad Alceo Dossena e il magistrale Vito Zani ne ha scritto qui. peraltro al convegno che mi ha portata in Valtellina il mese scorso Zani era seduto proprio dietro di me: non mi sentivo così viva da molto tempo, e temo non mi sentirò così viva per altrettanto.
tornando a noi: per parafrasare i Baustelle, io tra i Giovanni preferisco quello vero, il Battista. però se conoscete qualcuno che si chiama così e a cui tenete, è il momento di augurargli un buon onomastico, nel caso non l’abbiate ancora fatto :-)
UNO – ROBA CHE LEGGO
l’estratto di oggi arriva da “Discorso sull’invenzione di una patologia universale” scritto da (senza che vi stupiate ormai, credo) Giorgio Manganelli e pubblicato da Adelphi in “La notte”, una raccolta in cui compare anche “Sarcofago nuziale” che descrive il rapporto di coppia in un modo che mi fa dire: “ecco, fossi stata la moglie o l’amante o la fidanzata o l’amata o il flirt di Manganelli sarei stata felice, nonostante il costante dramma esistenziale suo e mio e nostro, ma per essere la moglie o l’amante o la fidanzata o l’amata o il flirt di chiunque altro, meglio se rimango un po’ da sola”.
il brano (tagliato e cucito da me) qui sotto riguarda malattia e morte, dato che non voglio che vi sentiate troppo a vostro agio già alla prima newsletterotti: mi serviva un modo per tenervi un po’ alla larga, ché come dice Ketama126 non voglio nuovi amici. il brano dice così:
“Ma forse nessuna mia invenzione di questo periodo mi inorgoglisce quanto il cancro; questo male che trasforma un corpo in propria cava, e di quel carneo sasso fa un edificio, un tempio, un altare; che occupa dei sacelli delle sue metastasi, che consuma moltiplicando, uccide dando vita, siffattamente tortura da far desiderare l'estasi della finale tortura, e accompagna e consuma e affabula con l'orrore dei suoi gesti esatti e insensati e lascia tanto tempo cosciente e lucido e pacato il miserrimo e lussuoso portatore di tanto architetto, finché egli si precipita alla propria consumazione, non più propria, giacché egli ben sa che tanta parte del suo corpo non è più lui, ma altra cosa, ingegnoso edificio, abside concrescente, coltivazione di intrinseche torri, e riconosce nei noduli castella e torri e ponti levatoi dell'altro, ed alla fine muore consumato in cachettica angelicità, leve da farsi volatile, corpo infantile che già fu poderoso e pingue, breve mite cosa, un traliccio di ossa e una pergamena fatta palinsesto dalle sovrascritte documentazioni delle eseguite torture. [...] Una invenzione tarda, che taluni hanno frivolmente accusato di decadenza, è l'epilessia; quei rotolamenti e sbavamenti e storcimenti d'occhi e scuotimenti del capo appartengono, ne convengo, ad altro tema stilistico che non il sobrio e sintattico cancro, e l'elegiaca malaria, e il laconico infarto; è un momento barocco, caldo di figure, o piuttosto argutamente cerimoniale, un farsi del corpo stemma o emblema mobile, stellato, trinacria, pentagramma inscritto nella circonferenza della provvisoria demenza, bava cerimoniale, tremoto sacro orizzontale, esplosione corporale, mimesi ittica di stella marittima, mimesi vegetale di fiore spalancato, mimesi animale di rettile esploso, mimesi mitologica di aracne punto a giorno, l'epilettico è la rosa del mio giardino letale, è puro ornamento, delizia del gioco, fremito della forma, libertà della libidine. Sacerdote del male e del divino in quanto identici, l'epilettico è il chierichetto devoto, il cinedo dell'abisso, il ganimede del banchetto funebre, la valletta delle nozze di pietra. Egli non prepara né sé né altri alla morte; ma la adorna e celebra; è il violino dell'universo ammalato. [...] Quel palinsesto che scopersi segnato sui corpi consumati dei cancerosi, eccolo di nuovo sui corpi dei lebbrosi, ma infinitamente scritto, riscritto e sovrascritto. L'impossibilità di comunicare direttamente coi viventi, e tenere con loro un discorso insensatamente sensato, mi indusse a progettare queste pagine di pelle e carne, sovrascritte con pennino di frigida ustione, invisibile librato scalpello che si erge sopra i corpi consunti e li arricchisce di segni e allusioni. Sopra il corpo del lebbroso io muovo le mie mani arcaiche ed esatte; e catturo via via tratti di corpo scoperto, e sopra vi mimeografo i miei appunti; logoro dita e naso, chiudendo in ogni segno disegnato un appunto, un ammicco; e faccio di quel corpo una biblioteca, e insieme una ingegnosa anche se impervia scultura, o forse un lavoro in corpo battuto, il lebbroso è stilobate, iconostasi, o forse e definitivamente il mio prediletto codice miniato, in cui ogni lettera si è scalfita per grazia di consumazione; la morte stessa si è fatta bulino o penna, e con piccoli colpi della sua presenza, avaramente donandosi, lei, la più generosa di tutte le puttane, parcamente scrivendo, l'eloquente logografa, ha lasciato le proprie incisioni; così che il corpo del lebbroso è anche mappa letale, carta monumentale, pianta stradale, graffito catastale, in cui gli stessi inchiostri escono dai denti cariati della morte.”
DUE – ROBA CHE MANGIO
domenica 18 dicembre sono stata con i carissimi Carl, Jack e Margo (dovevamo essere in cinque, ma c’è stata una triste defezione in extremis di Mati) all’Ostreria Fratelli Pavesi in località Gariga presso Podenzano, poco fuori Piacenza. l’Ostreria è un posto del cuore, per cui la newsletterotti parte con una scelta d’élite (come lo è stato il Manga nella sezione precedente, del resto). tra le tante cose buonissime che ho mangiato c’erano gli anolini in brodo (che, poi, il brodo è la prima ricetta dell'Artusi), che voi direte: ma davvero vai al ristorante per mangiare della brodaglia? eccome. mentre eravamo al tavolo è arrivato il Giacomo Pavesi (uno dei tre fratelli proprietari e uomo della mia vita, peccato solo che lui non lo sappia) che ci ha raccontato del suo fallimentare tentativo di cucinare le tagliatelle al ragù a casa qualche giorno prima. “facevano schifo, mio figlio non le ha mica mangiate”, detto con la cadenza piacentina, di cui io sono innamorata. ce l’ha detto perché Jack aveva ordinato le tagliatelle al ragù di daino e salsiccia, che mi pento di non aver assaggiato, nonostante i suoi inviti a farlo. il senso del discorso del Giacomo Pavesi era che le robe semplici van fatte bene, e se le fai bene la gente ha voglia di mangiarle pure - e soprattutto - al ristorante.
la cucina è un mondo incredibile, certi chef sono dei veri e propri geni, ma io alla fine mi faccio sempre rapire dalla materia prima: preferirei dare 80€ a Bottura (che mi sbatte sul piatto il top del top del culatello, senza nessuna preparazione fatta da lui) che 70€ a Cracco (che nel menù ha un antipasto chiamato “Orange is the new egg” che non so che cazzo sia: sicuramente è buono, ma non so che cazzo sia comunque). la materia prima in sé è troppo importante per me, motivo per cui sono impallinata coi presidi Slow Food e le trattorie vecchia scuola (all’origine di tutto c’è, comunque, mio papà, che mi ha cresciuta così, senza che mamma avesse troppo da ridire, sia chiaro).
ma tornando agli anolini in brodo dei fratelli Pavesi: te li servono portandoli al tavolo in una zuppiera di ceramica bianca e da quella te li mettono nel piatto con un mestolo, in diretta, facendoti sentire una principessa per qualche istante. che manata. il ripieno era incredibile: senza dubbio tra i migliori ravioli-et-similia che io abbia mai mangiato. poi mi fa sorridere la lotta onomastica sugli anolini (da “anulus”, anello; questa cosa dell’etimologia mi ricorda che a un certo punto dovrò scrivere dei pisarei) – dicevo, mi fa sorridere la lotta onomastica sugli anolini. li chiamano così e sono tipici della zona tra Piacenza e Parma, ma a Parma li dicono pure cappelletti, da non confondersi con i cappelletti reggiani che sono un po’ tipo i tortellini bolognesi, ma con una chiusura diversa.
chiudo questo primo sproloquio culinario ricordando a tutti che se qualcuno vuole offrirmi una cena da Bottura (non per forza quella di capodanno, che il 31 avrei già altro da fare & non per forza insieme, ci vado anche da sola, basta che i soldi spesi non siano miei), mi può sempre contattare in privato, grazie!
TRE – ROBA CHE STUDIO
Santa Maria presso San Celso in corso Italia a Milano è un posto che amo e che mi fa girare le balle come pochi altri al mondo, ma è proprio il connubio amore/giramento di balle che mi attrae ogni volta (la visito quasi ogni martedì pomeriggio). Santa Maria è un santuario fondato alla fine del XV secolo e addossato alla ben più antica San Celso, che spesso (a meno che non ci siano mostre o eventi al suo interno) è chiusa, motivo per cui mi girano le balle. ad ogni modo, nel portale principale dell’ormai mutila basilica romanica si conserva un incredibile (per me…) architrave figurato con le storie dei martiri Nazaro e Celso. risale alla seconda metà del XII secolo e la storiografia ha tradizionalmente sottolineato (con mio notevole e innato disappunto) come in quel periodo gli scultori milanesi fossero degli scarsoni. si dice che le forme decadono, che non c’è eleganza, che non c’è verità anatomica, che non c’è il rispetto delle proporzioni, che non ci sono movimenti coerenti e bla bla bla, quindi, per forza di cose, se manca tutto ciò, gli artisti erano poco capaci. ovviamente (per me…) è una cazzata. c’è una vita, una normalità, una quotidianità, una bellissima semplicità (come quella delle materie prime culinarie) in quegli omini sgraziati con la testa a pera rovesciata che guarda a modelli longobardi (eccallà). altri due scultori scarsi del XII secolo li trovate, se volete, al Museo di Arte Antica del Castello Sforzesco: lì, infatti, sono conservati dei rilievi firmati da Anselmus “pollice docto” e Girardus “Dedalus alter”. Firme magniloquenti che mi rendono Anselmo e Gerardo assolutamente simpaticissimi, perché se la menano e se la meneranno per l’eternità, in barba alla critica e alla storiografia che li vuole incompetenti.
credo vi sarete accorti che nella newsletterotti non faccio interventi propriamente accademici: volevo solo dirvi che se vivete a oppure passate da Milano dovreste vistare San Celso, che magari non è tra le prime attrazioni suggerite cercando “cosa vedere a Milano” su internet. se ci arrivate davanti e la trovate chiusa - che, per l’appunto, è facile - potete consolarvi ripiegando sul delizioso giardinetto che sta dietro l’area absidale del complesso: ci si arriva da via Vigoni (dove ha vissuto Manganelli, al numero 5!) oppure uscendo dalla porta sulla sinistra del deambulatorio di Santa Maria. lì trovate anche un bellissimo quadro di Moretto, peccato solo che sia collocato dietro un confessionale (o forse dietro la porta stessa? non ricordo) e, quindi, si vede a metà, ed è pure illuminato malissimo. se passate di martedì pomeriggio verso le 16.30 (pure a gennaio, con circa 2 gradi celsius) potreste addirittura incontrarmi intenta a leggere o scattare le ennesime foto uguali all’abside di San Celso :-)